Trionfo di Bacco e Arianna (1595-1604) di Annibale Carracci, pittore bolognese(1598-1601) Roma, Galleria di Palazzo Farnese, affresco; 180 x 160
di Laura Gangemi
Il Trionfo di Bacco e Arianna, considerato dai più il capolavoro di Lorenzo il Magnifico, si inserisce nei cosiddetti canti carnascialeschi, componimenti che venivano cantati durante il carnevale, o carnasciale, dalle allegre maschere in coro.
Trionfo significa corteo trionfale: si tratta, in questo caso, di un corteo mitologico, o meglio di un carro mascherato, nel quale troviamo personaggi mitologicamente travestiti: Bacco, Arianna, satiretti, ninfe, Sileno, Mida.
Bacco, dio del vino e della frenetica gioia, ne diventa il protagonista.
Bacco è, infatti, un altro dei nomi col quale i Greci indicavano Dioniso, dio del vino e della forza procreatrice della natura e che, nel mondo romano, era poi divenuto sinonimo di ebrietà e di piacere sfrenato.
La tradizione lo vuole figlio di Semele e Giove, nato a Tebe prematuramente in seguito alla morte della madre e tenuto poi dal padre a lungo rinchiuso nella sua coscia. Venne allevato dalle Ninfe sul Monte di Nisa e lì, una volta adulto, riuscì a trovare il modo di coltivare la vite, dalla quale trasse una bevanda mirabile che lo riempì d'ebbrezza insieme al suo corteo di ninfe, di fauni, di centauri, e di tutti gli altri semidei della mitologia Greca. Bacco, poi, viaggiò per il mondo, col suo gruppo di gioiosi compagni, dispensando a tutti l'allegria del vino.
Altri miti legati alla sua figura fanno di Bacco un dio perseguitato che sempre trionfa sui suoi nemici e che, ucciso, resuscita a nuova vita: simbolo della natura che ogni anno si rinnova riprendendo, così, il motivo del dio protettore della vite e dell'agricoltura.
Accanto a lui troviamo la figura di Arianna, figlia di Minosse, re di Creta, e di Pasifae, che si innamorò di Teseo quando questi arrivò nell'isola, con altri giovinetti, come tributo di Atene al Minotauro. Secondo la leggenda, infatti, al Minotauro, mostro metà toro e metà uomo, nato dall'unione di Pasifae con un toro celeste, ogni nove anni venivano sacrificati sette fanciulli e sette fanciulle inviati da Atene come tributo di guerra a Minosse; tra questi giovani si introdusse Teseo, figlio del Re Ateniese Egeo, con lo scopo di uccidere il Minotauro, che Minosse aveva imprigionato nel Labirinto, e liberare così la sua città dal crudele obbligo. Arianna consegnò a Teseo il gomitolo che le aveva dato Dedalo (l'ideatore del Labirinto), per addentrarsi nel palazzo e ritrovarne poi l'uscita. Dopo che il giovane ebbe ucciso il Minotauro, ottenendo così la salvezza per sè e per i suoi compagni, Arianna partì con lui alla volta di Atene, ma fu abbandonata nell'isola di Nasso e qui trovata e confortata da Bacco.
Tema ispiratore di tutto il canto è quello della gioventù lieta e fuggitiva, un invito a cogliere la giovinezza e le beatitudini dell'Amore, con la relativa esortazione a gustarne la gioia che rapida trasvola, e a coglierne l'attimo con la consapevolezza che solo il presente si conosce e che il domani è imprevedibile e incerto.
In questo senso, quindi, Lorenzo si fa portavoce di un motivo comune alla sensibilità e alla poesia che pervade tutto il Quattrocento, tanto che dietro questo poeta si può vedere una intera folla, una comunità festante, e non un singolo uomo.
Si nota in lui, però, anche una lucida amarezza e un accorato scetticismo che lo coglie qui come in altri suoi scritti: si può notare, infatti, come ogni strofa, dopo la descrizione delle figure e dei personaggi gaudenti, si spenga nella malinconia dei due versi finali che fanno da ritornello: "Chi vuol essere lieto sia, del doman non v'è certezza".
Passato il carro rimane il poeta che, dopo aver incitato la folla che segue con lo sguardo quell'immagine di allegria, a ballare, cantare, amare e a farsi riempire il cuore di dolcezza, esprime l'amara constatazione sul destino dell'umanità che non lascia spazio alla speranza: "Ciò ch'à a esser, convien sia" intendendo, con queste parole, che ciò che deve accadere accadrà, la giovinezza tramonterà e finirà anche la vita, forse l'indomani stesso, e che pertanto non rimane all'uomo altro che gustare quello che ha sul momento, cogliere al volo l'occasione senza fidarsi del futuro, come tanti secoli prima già aveva cantato Orazio nel suo famoso "Carpe diem quam minime credula postero".
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